Quando un semplice appassionato di musica come me ha il compito di recensire un disco come questo degli Inert, di cui vi parlerò a breve, è difficile non pensare che la vita sia stata davvero generosa con il sottoscritto, e di questi tempi non è affatto poco, ve lo assicuro. In fondo cosa c’è di più semplice, immediato e al tempo stesso rassicurante del parlare di un tipo di musica che adori, eseguita da gente che stimi e apprezzi, e guarda caso che hai anche avuto la fortuna di conoscere?
Va bene, lo ammetto, le premesse sono forse troppo positive ed entusiastiche per uno che dovrebbe darsi un tono da critico musicale, ma vi assicuro che questo lavoro dal titolo “Heartburn” è davvero qualcosa che infiamma le vie del sangue e dell’ossigeno, se mi permettete il gioco di parole. Ma torniamo al disco, interamente strumentale e composto da 10 brani: prendete due musicisti, il primo un pugliese, per la precisione un tranese, che vive a Pontassieve, Raffaele Cileo (elettronica e programming), il secondo un genovese che vive a New York, ma che è solito trascorre le sue vacanze nel paese toscano del primo, Alessio Lottero (chitarre, basso e arrangiamenti), fateli orbitare attorno ad un fonico tranese, Beppe Massara, produttore della casa discografica Tarock Records, il quale non contento, affida le sezioni ritmiche ad altri musicisti pugliesi quali Costantino Massaro, Paolo Ormas e Francesco “Frums” Dettole, e i fiati al sassofonista Marco Nicolini, aggiungeteci internet come mezzo di comunicazione sonora e rumorosa.
Fatto? Bene, adesso dovreste avere tra le mani “Heartburn” degli Inert, un disco esplosivo e apolide, che gioca non solo con vari generi musicali, ma soprattutto con epoche sonore differenti. Sì, perché al duo in questione riesce benissimo l’arte di unire e sintetizzare, attraverso la loro differenza, stili musicali appartenenti a tre epoche diverse: i 70, gli 80 e i 90. Se Hegel avesse ascoltato questo disco avrebbe affermato che gli Inert sono riusciti a tradurre in chiave sonora il concetto di “Aufheben”, ossia del “togliere e conservare”. La loro musica è, infatti, una perfetta struttura dialettica dove i differenti elementi, dal jazz al funk, dal rock al blues, dall’indrustial al pop, si rovesciano l’uno nell’altro senza mai annullarsi, giungendo così a superarsi nella conservazione, negandosi e al tempo stesso preservandosi nella propria differenza. Un’unita sonora che si fa attraverso la molteplicità degli stili da cui è alimentata, ognuno dei quali trapassa nell’altro in una fusione tellurica e caleidoscopica.
Sin dalla prima traccia, “Police Radio”, possiamo notare come il funk e il jazz giochino a oltrepassarsi e a reinventarsi attraverso un groove e un mood tipicamente elettronico, industrial direi. Non a caso quest’ultimo è la sonorità che rappresenta al meglio il tema ricorrente di tutto l’album. Sì, perché il disco è stato realizzato soprattutto attraverso un mezzo elettronico, la rete che è servita ad abbattere i settemila chilometri che separano Pontassieve da New York, ma è anche stato suonato, pensato e visualizzato tramite strumenti elettronici, come l’eccellente lavoro di Raffele ci dimostra per tutto l’ascolto di “Heartburn”. Tuttavia, questo non significa che il disco suoni troppo contemporaneo, freddo, addirittura post-moderno. Tutto il contrario, il loro lavoro odora di seventies, di cinema poliziesco o, ancora meglio, di cinema della Blaxploitation, genere di film nato negli anni 70 in America e musicato esclusivamente dal soul e dal funk. Certo, il funk degli Inert è un funk che sicuramente degli anni settanta conserva l’odore, la sporcizia, l’esplosione appunto, ma nonostante questo resta ben ancorato ai nostri tempi, filtrato dalla musica industrial dei gloriosi anni 90.
Lo dimostrano i pezzi più riusciti del disco, come Smokey, White Coffin Blues, Call the Coroner e la splendida White Coffin Blues Pt. 2. Quest’ultima traccia, con il suo incedere tooliano e a tratti reznoriano, chiude l’album in maniera eccelsa. Per la precisione lo conclude come, per tornare al filosofo tedesco, il Sapere assoluto chiude la Fenomenologia dello Spirito. Per intenderci, l’ultimo momento musicale non sembra affatto un’altro pezzo, un’ennesima tappa dello stesso percorso sonoro, bensì la rievocazione totalizzante di tutte le tracce precedenti, di tutto l’errare e il vagabondare che ci ha condotto sin qui. Come se tutte le nove tracce che l’hanno preceduto non fossero che anelli sempre più grandi appartenenti ad un unico ma sempre diverso intreccio di stili sonori, il quale non fa che ripetersi ad ogni traccia in maniera diversa e più convincente, sino a quando nell’ultimo brano questo intreccio dialettico porta con sé, per inverarli e sublimarli, tutti i momenti precedenti. Come un colpo di dadi che riafferma tutti i lanci in un lancio solo.
Questo e molto altro è “Heartburn”, il primo e sorprendente disco degli Inert. Non posso che rallegrarmi nell’apprendere quanto gli artisti pugliesi sappiano ancora oggi spiazzarmi, sorprendermi, disattendermi. Questa è la Puglia che adoro, quella che non solo supera e conserva se stessa al di là dei propri confini regionali, ma che valica addirittura quelli europei, compiendo così il giro del mondo e ritorno, in un crogiolo di popoli e suoni che parlano lingue e suoni differenti. Certo, non posso ne voglio adombrare il talentuoso Alessio Lottero, la sua chitarra è la molla percussiva di tutto il progetto, tuttavia non posso concludere questa recensione senza ringraziare in modo particolare gli altri due protagonisti pugliesi dell’album: Raffaele Cileo, per il suo talento cristallino e viscerale, per il suo estro ruvido e tenebroso che traspira da ogni nota del disco; Beppe Massara, la cui casa discografica pugliese Tarock Records continua a sfornare progetti innovativi e di livello internazionale, per fare qualche esempio di artisti pugliesi prodotti: The people speak, The rest side, Rainbow bridge, Deisler, Luca loizzi, Deckard. Inert è senza ombra di dubbio Genova, Pontassieve, New York e molto altro, ma è anche la Puglia che non molla, che ha il coraggio di aprirsi al proprio Nord come al proprio Sud. Perché avere un centro, una stabilità, non vuol dire restare ancorati al proprio epicentro e da lì osservare il mondo, ma mettersi sempre dalla parte del confine più lontano, per poi guardare al proprio centro e oltre. Anche questo è Inert.